Rifugiati climatici: un fenomeno migratorio in espansione.
Sentiamo spesso parlare di rifugiati per motivi politici, di razza o di religione, meno spesso di rifugiati climatici.
Sono persone costrette a fuggire per sopravvivere a fronte di particolari fenomeni climatici (come incendi, inondazioni, siccità gravi) che colpiscono il loro Paese.
Nel mondo, nel 2020, sono state 30,7 milioni le persone che hanno lasciato le loro case a causa di disastri naturali.
Spesso si spostano all’interno dei confini del proprio Stato (IDP – internally displaced people) e non sono stati finora riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra che, fra gli status di rifugiato, non ascrive i motivi ambientali.
In Italia, la Cassazione si è chiaramente espressa in merito in una sentenza del marzo 2021 citando il cambiamento climatico, l’insostenibile sfruttamento delle risorse naturali e i disastri ambientali quali motivazioni valide per la richiesta di protezione umanitaria.
L’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) stima che ci potranno essere 200 milioni di migranti climatici nel mondo, entro il 2050.
Considerando che le stime scientifiche indicano anche che, entro lo stesso anno, la temperatura terrestre si sarà alzata di almeno 1,5 gradi in mancanza di interventi per la riduzione del riscaldamento globale, occorre muoversi in maniera tempestiva su svariati fronti.
Entro quella fatidica data, sul piano umanitario andrebbero messi in atto progetti di sostegno ai cambiamenti climatici e incentivati piani di sviluppo sostenibile nei Paesi più vulnerabili.
Offrire delle prospettive in tal senso potrebbe contribuire a ridurre il numero di migranti per cause climatiche.
Ma è anche indispensabile lavorare affinché, a livello di diritto internazionale, lo status di rifugiato climatico venga finalmente riconosciuto e tutelato.